Lo andai a trovare in ospedale, avevo ricevuto la notizia del suo ricovero un paio di giorni prima, ma non avevo ancora trovato il coraggio di andarci. Il nonno aveva settantaquattro anni e stavo temendo per il peggio, la nonna mi aveva accennato ad un ulcera o, forse, un tumore allo stomaco, non aveva capito bene, era confusa e preoccupata.
Il sole, fuori, era tramontato quando mi affacciai sullo stipite della porta della sua camera. La stanza era illuminata da un neon al centro del soffitto, una luce fredda, incolore e pallida che rendeva ancora più smorto quel corpo adagiato sul letto, un fioco ricordo della forza che aveva avuto una volta. L'abbronzatura, le larghe spalle e le braccia robuste, ottenuti col lavoro all'aria aperta, il ventre prominente e il sorriso, dovuti alle serate bevendo vino con gli amici e gli occhi chiari, orgogliosi e vispi, conseguenza di una vita portata avanti secondo principi appresi sulla propria pelle, erano svaniti, erano stati sostituiti da un involucro scheletrico, costretto all'immobilità di un letto.
Quando mi vide gli si inumidirono gli occhi, aveva uno sguardo misto tra gioia e dolore, abbassai la testa, non riuscii a sostenerlo, non restava nulla dell'uomo che avevo ammirato, nemmeno l'ombra della persona che era stata un tempo.
Lo salutai avvicinandomi al letto e il nonno biascicò un sussurro: “Ti ricordi quando andavamo a Punta Helbronner?”.
Si me lo ricordavo.
Ogni anno il sedici giugno il nonno mi portava lassù. Arrivavamo alla stazione de La Palud sempre mezz'oretta prima dell'apertura della biglietteria, eravamo i primi a salire sulla cabina della funivia. Arrivati in cima andavamo al rifugio Torino a fare colazione, bevevo sempre un bicchiere di latte caldo, perché, anche d'estate, faceva freddo.
Andavamo lassù, tra le cime più alte delle Alpi, immersi in quella cornice di rocce, neve e ghiacci, per portare i fiori sulla targa che commemorava i caduti durante la costruzione della Liaison, la tratta che collega Punta Helbronner a l'Aguille du Midi. Il nonno e suo fratello avevano lavorato alla posa dei cavi, quando erano giovani, ma, soltanto uno, era tornato a casa ed era invecchiato, l'altro era rimasto lassù a riposare dove tutto resta in eterno.
Il giorno in cui il mio prozio morì, i due fratelli si trovavano sul Gros Rognon, dovevano fissare le tesate per il pilone aereo, l'unica soluzione possibile per coprire i tremila e trecento metri di campata sul ghiacciaio. Accadde li ,tra quei luoghi tanto maestosi quanto ostili, l'incidente che portò il nonno a perdere suo fratello, una fatalità, una caduta e una corda di canapa troppo usurata, decretarono lo spegnimento dell'ennesimo giovane alpinista.
Sorrisi ripensando alle belle giornate passate dove una volta soltanto pochi arditi avevano la fortuna di arrivare, ma non venne ricambiato, il vecchio volto di mio nonno si scurì, iniziò a piangere e a urlare: “ Sono stato io, sono stato io...”
Non capivo cosa stesse succedendo e non riuscivo a tranquillizzarlo, era come impazzito, decisi di andare a chiamare un'infermiera, ma una debole mano mi cinse il polso e mi bloccò. “Sono stato io a ucciderlo” uscì tra i singhiozzi.
Pianse a lungo, continuò finché non si stancò troppo e col viso arrossato dalle lacrime si addormentò. Restai a guardarlo dormire, non riuscivo a credere a quello che mi aveva detto, rimasi incredulo.
Quando uscii dall'ospedale il sole stava sorgendo, ma non avevo sonno, ero sconvolto, continuavo a pensare alla confessione del nonno, non sarei più riuscito a vederlo come prima se non avessi chiarito la faccenda.
Andai a trovare la nonna, dovevo sapere se conoscesse qualcosa di quello che era accaduto ad alta quota. Si stupì di vedermi a quell'ora del mattino e si stupì ancora di più quando le raccontai quello che era successo la sera prima, non volle credermi, ma iniziò a raccontarmi la storia della casa dove ci trovavamo, della cucina dove eravamo seduti.
Era stata costruita nel millenovecentotrenta dal padre di mio nonno, il mio bisnonno, pietra su pietra, col sudore della sua fronte, dopo essere arrivato in Valle d'Aosta fuggito dalla fame e dalla povertà del suo paese. Era l'unica cosa che possedessero durante la guerra e l'unica cosa che gli restasse dopo, ma nel millenovecentocinquantasette la perdettero.
Il fratello del nonno l'aveva impegnata per ottenere un prestito da uno strozzino, aveva dei debiti di gioco che non riusciva a pagare. Arrivato il giorno di restituire i soldi all'usuraio questo non si fece trovare, il denaro non venne consegnato alla data stabilita quindi non fu rispettato il patto e il presta soldi venne in possesso della casa legalmente, come pattuito dal contratto.
Il bisnonno si vide portare via la sola cosa che fosse riuscito a costruire, il frutto di anni di lavoro e sacrifici, senza poter far nulla per evitarlo. Non lo sopportò, non riuscì a trovare un senso all'esproprio, non ebbe il coraggio di ricominciare, fu trovato impiccato il quindici giugno in cucina, appeso al trave che anni addietro aveva piallato prima di posarlo sul muro portante. Non lasciò scritto niente, nessuna parola, lasciò solo uno sguardo perso nel vuoto.
Il nonno ne rientrò in possesso vent'anni dopo, fece di tutto per riacquistarla, era ossessionato dal fatto di doverla riavere, di onorare la memoria di suo padre e della sua opera. Non poteva sopportare che qualcun altro vivesse nella casa costruita dalle mani che avevano creato anche lui, nella casa dove aveva passato la sua infanzia, nella casa dove aveva passato dei momenti felici.
La nonna, però, non sapeva nulla di quel fatidico giorno sulla cima delle Alpi, non sapeva nulla di quello che era successo tra i due fratelli.
Il nonno morì due settimane dopo e io non ebbi mai il coraggio di chiedergli di raccontarmi quello che successe, non volevo farlo soffrire riportandolo a quei giorni e alla fine non volevo, neanche, credere che fosse stato in grado di compiere un atto tanto crudele. Continuo a domandarmelo, ma non otterrò mai una risposta, potrò solo fare delle supposizioni.