lunedì 13 maggio 2013
martedì 9 agosto 2011
mercoledì 3 agosto 2011
lunedì 25 luglio 2011
Paranoia
Devo scappare, devo fuggire, devo trovare un posto sicuro dove nascondermi, se mai possa esistere un luogo del genere.
Dove posso andare, mi raggiungerà ovunque io sia, niente basterà a tenerlo lontano da me, nessuna distanza sarà abbastanza grande da separarci.
Vedo solo ghiaccio, solo un'immensa distesa bianca e fredda, niente dove ripararsi, cosa ne sarà di me, cosa ne sarà stato degli altri?
Non riesco più a correre, l'aria nei polmoni brucia e le gambe non riescono più a reggermi, forse, è anche colpa del peso che porto dentro, della colpa che mi devo assumere. Io sapevo cosa stavamo per fare, anche se non immaginavo che sarebbe successo per davvero. Mio dio cosa abbiamo fatto?
Non ho più speranza, non riesco più a muovermi, mi fermerò qui e mi assumerò le mie responsabilità e pagherò per i miei peccati. Ma come è potuto accadere? Tutto ci è scivolato di mano, è stato un attimo, tutto si è svolto troppo in fretta.
Non avrei mai dovuto dar ascolto a quel folle, io sono una persona razionale, come ho potuto farmi trascinare in questa pazzia,? Forse, pensavo fosse solo un gioco, una curiosa analisi del mondo, alla fine poteva sembrare un innocuo modo per vedere cosa ci fosse oltre a noi, esseri umani.
Mi sbagliavo, ho fatto il peggior errore della mia vita, come fa una persona ad essere così stupida, così imprudente, con certe cose non bisogna scherzare. È iniziato nel modo più innocente possibile, nessuno avrebbe immaginato che sarebbe degenerata a tal punto.
Inizialmente erano incontri in cui si discuteva filosoficamente sulla vita, sulla religione e sulla natura in genere che ci circonda, senza nessuna pretesa di azione, senza nessuna voglia di scoprire verità assolute, senza nessuna intenzione di intraprendere sentieri oscuri e sconosciuti, erano semplici elucubrazioni mentali. Che grosso errore stavo commettendo.
In seguito, quel pazzo, quell' uomo dalla natura perversa, acquistò e studiò volumi blasfemi scritti da mani incoscienti. Prese spunto dalle sue letture e cominciò a sperimentare le più orribili nefandezze, iniziò a teorizzare metodologie raccapriccianti e io lo seguii nei profondi meandri del proibito dove la luce non è più neanche un fioco bagliore e dove nessuno aveva più osato avventurarsi da eoni.
Avevamo, comunque, ottenuto dei risultati, le nostre ricerche malate ci avevano condotto ad osare verso l'altezza, verso le alte quote, così decidemmo che il principio di ciò che sarebbe dovuto essere il nostro sogno, sarebbe stato il rifugio Torino e avrebbe avuto come cornice, come unico testimone del nostro ardire la catena del Monte Bianco.
Quale pazzia mi ha spinto a salire su quella funivia? Eppure, alla stazione della Palud ho avuto modo di riflettere, di pentirmi della mia scelta, ma le parole del mio scellerato compagno mi avevano nuovamente ammaliato con promesse di eterna gloria, come se a lui importasse la vita di due miseri esseri umani, che stupido e ingenuo sono stato.
Abbiamo passato la giornata a raggirare il gestore del rifugio, abbiamo ingannato la guida alpina che ci ha portato a vedere il Ghiacciaio del Gigante indicandoci le punte, come se fossimo semplici turisti, abbiamo preso in giro gli altri avventori mostrandoci loquaci. Quanta falsità e ipocrisia c'era nei nostri racconti e nelle nostre parole, nessuno immaginava la follia dei nostri gesti futuri.
Si sta avvicinando, lo sento, percepisco tutta la sua empia e blasfema follia, però non lo vedo, dove sarà? Non sono al sicuro, dovunque andrò mi troverà, non riuscirò mai a scappare a sufficienza, sono condannato. Sta avvenendo quello che è avvenuto nel rifugio, quella cacofonia di suoni sempre più forti e quel sordo cupo rombo sono sempre più forti, sta arrivando la fine.
Perché non ho fermato quello squallido individuo quando ho potuto, perché ho lasciato che portasse a compimento quell' atto scellerato e immondo, perché ho avuto così paura di quello sguardo, di quegli occhi malvagi?
Sono restato a guardare mentre il tributo di sangue veniva offerto a... quel nome, quel ignobile nome, non riesco neanche a pronunciarlo, solo pensarlo evoca crudeltà inimmaginabili e terrori sepolti nella vastità del tempo, non riesco a sopportare visioni tanto distruttive.
Davanti ai miei occhi è stata compiuta una carneficina di vite innocenti maciullate nei corpi e stuprate nelle anime senza che potessi far nulla, se non fuggire. Poi ci sono state quelle grida, quelle urla, quelle parole irripetibili come primo saluto a quel abominio.
Come ho potuto permettere che tutto ciò avvenisse? Come ho potuto essere così stupido e sprovveduto? Perché non ho fatto nulla per fermare questo scempio? Chi mai potrà fermare le forze che abbiamo scatenato?
Ora riesco a vederlo in tutto il suo orrore, ogni sua singola cellula emana ribrezzo, resta solo una caricatura bestiale di quello che poteva essere un uomo. Si avvicina velocemente e io non ho più forza per scappare, ma non lascerò prendersi anche la mia vita senza resistere, devo provare a fermarlo per espiare le mie colpe e i miei errori.
La fine di tutto è arrivata.
mercoledì 4 maggio 2011
Confessioni
Lo andai a trovare in ospedale, avevo ricevuto la notizia del suo ricovero un paio di giorni prima, ma non avevo ancora trovato il coraggio di andarci. Il nonno aveva settantaquattro anni e stavo temendo per il peggio, la nonna mi aveva accennato ad un ulcera o, forse, un tumore allo stomaco, non aveva capito bene, era confusa e preoccupata.
Il sole, fuori, era tramontato quando mi affacciai sullo stipite della porta della sua camera. La stanza era illuminata da un neon al centro del soffitto, una luce fredda, incolore e pallida che rendeva ancora più smorto quel corpo adagiato sul letto, un fioco ricordo della forza che aveva avuto una volta. L'abbronzatura, le larghe spalle e le braccia robuste, ottenuti col lavoro all'aria aperta, il ventre prominente e il sorriso, dovuti alle serate bevendo vino con gli amici e gli occhi chiari, orgogliosi e vispi, conseguenza di una vita portata avanti secondo principi appresi sulla propria pelle, erano svaniti, erano stati sostituiti da un involucro scheletrico, costretto all'immobilità di un letto.
Quando mi vide gli si inumidirono gli occhi, aveva uno sguardo misto tra gioia e dolore, abbassai la testa, non riuscii a sostenerlo, non restava nulla dell'uomo che avevo ammirato, nemmeno l'ombra della persona che era stata un tempo.
Lo salutai avvicinandomi al letto e il nonno biascicò un sussurro: “Ti ricordi quando andavamo a Punta Helbronner?”.
Si me lo ricordavo.
Ogni anno il sedici giugno il nonno mi portava lassù. Arrivavamo alla stazione de La Palud sempre mezz'oretta prima dell'apertura della biglietteria, eravamo i primi a salire sulla cabina della funivia. Arrivati in cima andavamo al rifugio Torino a fare colazione, bevevo sempre un bicchiere di latte caldo, perché, anche d'estate, faceva freddo.
Andavamo lassù, tra le cime più alte delle Alpi, immersi in quella cornice di rocce, neve e ghiacci, per portare i fiori sulla targa che commemorava i caduti durante la costruzione della Liaison, la tratta che collega Punta Helbronner a l'Aguille du Midi. Il nonno e suo fratello avevano lavorato alla posa dei cavi, quando erano giovani, ma, soltanto uno, era tornato a casa ed era invecchiato, l'altro era rimasto lassù a riposare dove tutto resta in eterno.
Il giorno in cui il mio prozio morì, i due fratelli si trovavano sul Gros Rognon, dovevano fissare le tesate per il pilone aereo, l'unica soluzione possibile per coprire i tremila e trecento metri di campata sul ghiacciaio. Accadde li ,tra quei luoghi tanto maestosi quanto ostili, l'incidente che portò il nonno a perdere suo fratello, una fatalità, una caduta e una corda di canapa troppo usurata, decretarono lo spegnimento dell'ennesimo giovane alpinista.
Sorrisi ripensando alle belle giornate passate dove una volta soltanto pochi arditi avevano la fortuna di arrivare, ma non venne ricambiato, il vecchio volto di mio nonno si scurì, iniziò a piangere e a urlare: “ Sono stato io, sono stato io...”
Non capivo cosa stesse succedendo e non riuscivo a tranquillizzarlo, era come impazzito, decisi di andare a chiamare un'infermiera, ma una debole mano mi cinse il polso e mi bloccò. “Sono stato io a ucciderlo” uscì tra i singhiozzi.
Pianse a lungo, continuò finché non si stancò troppo e col viso arrossato dalle lacrime si addormentò. Restai a guardarlo dormire, non riuscivo a credere a quello che mi aveva detto, rimasi incredulo.
Quando uscii dall'ospedale il sole stava sorgendo, ma non avevo sonno, ero sconvolto, continuavo a pensare alla confessione del nonno, non sarei più riuscito a vederlo come prima se non avessi chiarito la faccenda.
Andai a trovare la nonna, dovevo sapere se conoscesse qualcosa di quello che era accaduto ad alta quota. Si stupì di vedermi a quell'ora del mattino e si stupì ancora di più quando le raccontai quello che era successo la sera prima, non volle credermi, ma iniziò a raccontarmi la storia della casa dove ci trovavamo, della cucina dove eravamo seduti.
Era stata costruita nel millenovecentotrenta dal padre di mio nonno, il mio bisnonno, pietra su pietra, col sudore della sua fronte, dopo essere arrivato in Valle d'Aosta fuggito dalla fame e dalla povertà del suo paese. Era l'unica cosa che possedessero durante la guerra e l'unica cosa che gli restasse dopo, ma nel millenovecentocinquantasette la perdettero.
Il fratello del nonno l'aveva impegnata per ottenere un prestito da uno strozzino, aveva dei debiti di gioco che non riusciva a pagare. Arrivato il giorno di restituire i soldi all'usuraio questo non si fece trovare, il denaro non venne consegnato alla data stabilita quindi non fu rispettato il patto e il presta soldi venne in possesso della casa legalmente, come pattuito dal contratto.
Il bisnonno si vide portare via la sola cosa che fosse riuscito a costruire, il frutto di anni di lavoro e sacrifici, senza poter far nulla per evitarlo. Non lo sopportò, non riuscì a trovare un senso all'esproprio, non ebbe il coraggio di ricominciare, fu trovato impiccato il quindici giugno in cucina, appeso al trave che anni addietro aveva piallato prima di posarlo sul muro portante. Non lasciò scritto niente, nessuna parola, lasciò solo uno sguardo perso nel vuoto.
Il nonno ne rientrò in possesso vent'anni dopo, fece di tutto per riacquistarla, era ossessionato dal fatto di doverla riavere, di onorare la memoria di suo padre e della sua opera. Non poteva sopportare che qualcun altro vivesse nella casa costruita dalle mani che avevano creato anche lui, nella casa dove aveva passato la sua infanzia, nella casa dove aveva passato dei momenti felici.
La nonna, però, non sapeva nulla di quel fatidico giorno sulla cima delle Alpi, non sapeva nulla di quello che era successo tra i due fratelli.
Il nonno morì due settimane dopo e io non ebbi mai il coraggio di chiedergli di raccontarmi quello che successe, non volevo farlo soffrire riportandolo a quei giorni e alla fine non volevo, neanche, credere che fosse stato in grado di compiere un atto tanto crudele. Continuo a domandarmelo, ma non otterrò mai una risposta, potrò solo fare delle supposizioni.
lunedì 27 settembre 2010
Esperienze
In un impeto di pazzia e sovrumana ispirazione mi sono spinto oltre qualsiasi umana percezione e, superata ogni barriera dell'umano pensiero, quasi a toccare l'intero scibile.
Volevo scrivere qualcosa di raggiante, incoraggiante e, oltremodo, per non dire oltretutto, struggente, quasi sicuramente un'opportuna intransigente opera prima, magari accontentandosi, anche, di una seconda.
Le lettere avrebbero formato le parole, queste ultime le frasi e così via, fino ad ottenere l'inconsueto e travolgente composto che avrebbe espresso e, perché no, addirittura, in un momento di fine modestia, insegnato al resto dell'umanità una verità ultima per non dire suprema.
Ritornato alla lucidità della giornaliera routine, solo un unico e singolare quesito è rimasto di una miriade di nozioni e risposte ottenute: quindi???