Gheldjun si fermò a guardare la spianata. Il nemico si era schierato più in basso rispetto al suo esercito, sembrava che la leggera pendenza avrebbe favorito i Wolsenfohn, il reggimento a cui apparteneva. Si compiacque con se stesso sia per il vantaggio che avevano sugli avversari, sia per la deduzione strategica che aveva appena constatato: in effetti, il suo comandante li aveva fatti fermare mezza giornata di cammino in anticipo per sfruttare questa posizione. Gheldjun stimava il Tenente Knocharthen per queste finezze tecniche e un giorno quando avesse fatto carriera avrebbe voluto assomigliare a quell’uomo.
L’ esercito avversario mostrava, a loro vantaggio, una maggiore versatilità sul campo, infatti, gli stendardi dei reggimenti erano molteplici e denotavano una quantità di squadre specializzate negli attacchi da lunghe distanze, quali arcieri e frombolieri, e in quelli veloci, quali cavalieri e lancieri a cavallo. Anche le truppe di fanti erano divise secondo le armi utilizzate: dagli alabardieri agli spadaccini e dai lancieri ai soldati armati di ascia. Tra i ranghi figuravano anche molti mercenari del sud di Botterden, caratterizzati dalle loro lame fini, ma capaci di decapitare con un colpo, e dalle loro armature dai colori vivaci, quasi un invito a ucciderli.
Per contro il loro esercito sembrava un’accozzaglia di disperati. La maggior parte erano fanti con le armi più disparate, quasi tutte erano ereditate dai padri o dai nonni (nel caso i primi non avessero mai fatto ritorno da guerre passate). Gli arcieri e i cavalieri erano assai pochi: i primi perché ai loro occhi, compresi quelli di Gheldjun, era poco onorevole combattere con un arco, i secondi perché rischiare di perdere un cavallo in battaglia era una disgrazia che pochi potevano permettersi.
Il giovane guerriero smise di osservare il campo di battaglia, nonostante le sue ambizioni c’era ancora chi si occupava al posto suo della strategia da effettuare, e si concentrò sui suoi compagni. A qualcuno tremavano le gambe, mentre altri sudavano nonostante il fresco mattutino, Gheldjun pensò che doveva essere il loro primo combattimento visto che i loro visi gli erano sconosciuti. Invece a lui ed ad altri uomini brillavano gli occhi: era la sete di sangue. Lui ormai era un veterano, anche se quella era la prima battaglia di così vaste proporzioni cui avesse mai partecipato, ma questo non lo preoccupò minimamente: dopotutto mille o diecimila uomini era la stessa cosa, non doveva ucciderli tutti lui.
Si ricordò la prima operazione cui aveva preso parte. Aveva appena completato l’anno di addestramento riservato alle reclute ed era stato distaccato in una divisione di pronto intervento, i razziatori. Questa parte dell’esercito si occupava di distruggere gli avamposti del regno di Frikraftes, loro eterno rivale, prima che si militarizzassero, quindi erano villaggi di contadini e allevatori in cerca di terre. Il loro compito era di uccidere i pochi soldati e gli uomini e di riportare in schiavitù donne e bambini. A Gheldjun quel compito parve un massacro insensato e senza gloria, se avesse voluto raggiungere il regno dei guerrieri morti, Dorfenheld, non avrebbe potuto uccidendo contadini, inoltre gli ricordava il suo villaggio, così si fece trasferire nei ranghi dei Wolsenfhon.
Questo pensiero lo riportò al giorno della sua partenza da casa, per la coscrizione obbligatoria, cinque anni fa. Era il giorno del suo sedicesimo compleanno e un araldo del Re gli aveva consegnato la lettera in cui si dava notizia che aveva dieci giorni per recarsi a Westaidt, la capitale del suo regno, per portare servizio alla sua patria. Doveva partire subito perché il viaggio dal nord era lungo e i dieci giorni gli servivano tutti. Preparò in fretta i suoi bagagli. Suo padre lo chiamò in disparte e gli consegnò le sue armi che prima erano state di suo padre e prima ancora del padre di suo padre. Erano un’ascia e uno scudo, non avevano molti ornamenti, erano incise solo le rune della forza e del coraggio, ma sembravano appena forgiate tanta era la cura con cui erano state conservate. Arrivò il momento di partire e la madre, il fratello e le due sorelle lo salutarono piangendo, il padre, con una strana luce negli occhi, gli disse: “Sarò fiero di te. Ci rivedremo nel Dorfenheld”. Quel giorno non capì suo padre, ma adesso lo comprendeva benissimo.
“Ti vedo pensieroso quest’oggi. Sei preoccupato per la battaglia o per aver messo incinta quella ragazza? Com’è che si chiama? Non me lo ricordo mai”. Le parole di Stassechen, suo amico e fratello di ascia, lo riportarono alla realtà. “Si chiama Defteu e non è incinta. Stavo pensando a casa mia. Fra una settimana ho una licenza di un mese e ci torno”. “Ci torni se non muori oggi. Comunque il Dorfenheld è già aperto a uno come te”.
Le loro parole furono interrotte dall’arrivo del loro diretto superiore. Il Capitano Walachten stava ispezionando le file della sua compagnia sorridendo ai nuovi arrivati e facendo cenni col capo ai veterani. In quel momento stava pensando che non avrebbe dovuto ricordare a nessuno di cercare di ritornare indietro vivo, vista la giovane età di ogni singolo soldato. Si fermò solo di fronte ai due amici e guardandoli malamente li minacciò: “Se anche questa volta dovrò formare delle squadre di ricerca, perché due idioti si sono messi a inseguire da soli il nemico in rotta, non esiterò a punirli!” “Non si preoccupi Capitano, Gheldjun tra una settimana ha una licenza, quindi non ci perderemo”. Appena ebbe finito di parlare, Stassechen fece l’occhiolino al compagno. Il Capitano si diede un colpo in fronte e allontanandosi disse: “State attenti, mi piacerebbe rivedervi vivi”.
L’attenzione di Gheldjun e di altri soldati fu attirata sulla spianata: il Comandante e un araldo dei nemici stavano attraversando il campo con una bandiera bianca, volevano parlamentare. Subito il Tenente Knocharthen e un suo araldo andarono loro incontro. S’incontrarono in fondo alla discesa e iniziarono a parlare animatamente. Il giovane soldato non riuscì a sentire quel che dicevano, ma capì che l’esito dell’accordo fu negativo, quando l’araldo fiancheggiò l’esercito dicendo di serrare i ranghi e tenersi pronti.
Passarono pochi minuti, ai soldati sembrò un’eternità, e il segnale fu dato. La carica iniziò. I fanti dei due schieramenti iniziarono a corrersi incontro.
Quando furono a tiro, Gheldjun e i suoi compagni furono bersagliati da un nugolo di frecce. Molti vennero uccisi, ma ciò non rallentò la loro folle corsa.
L’impatto fu tremendo. L’impavido soldato brandiva l’ascia con furia sovrumana, ogni suo colpo uccideva o menomava un avversario, ogni zona del suo corpo era imbrattata di sangue, ne sentiva il sapore dolciastro e l’odore acre attraverso le narici e le labbra, i suoi capelli erano diventati rossi.
Con un occhio teneva sotto controllo l’amico Stassechen nel caso fosse sopraffatto dai nemici, ma vide che anche lui se la stava cavando alla grande.
La fanteria nemica stava soccombendo, infatti, nonostante la varietà di armi e la presenza dei mercenari, era inferiore di numero e di forza fisica e di questo Gheldjun fu grato agli Dei.
Si accorsero tutti troppo tardi che la cavalleria stava cercando di chiuderli alle spalle. Quest’ultima iniziò a falciare i soldati come se stesse mietendo il grano. Il Tenente Knocharthen mandò avanti gli arcieri a danno dei cavalieri nemici.
La battaglia subì uno stallo, le forze in campo si eguagliavano e sarebbe stato un massacro per entrambe le parti.
Gheldjun cercò l’amico e lo vide, mentre veniva infilzato da un lanciere. Corse per aiutarlo, ma arrivò tardi, ormai Stassechen era caduto per terra. S’inginocchiò, prese l’amico per le spalle e lo alzò. Il moribondo incominciò a vomitare sangue, ma riuscì ancora a dire: “Ritorna a casa almeno tu. Hai una donna, falla felice”. Stassechen vide che gli occhi del fratello d’ascia non erano più umani, erano iniettati di sangue, e che il sorriso era stato sostituito da un ringhio, dai lati della bocca fuoriusciva della bava. Gheldjun, ormai impazzito, abbandonò l’amico gettandosi nella mischia, le ultime parole che udì dall’amico furono: “TORNA INDIETRO, SCAPPA!!!” La mente del giovane soldato era vuota, l’unico pensiero, che gli arrivava da una recondita parte del suo cervello, era una sete incontrollabile di sangue.
Ogni avversario ucciso veniva maciullato a colpi di ascia. Ad ogni morto Gheldjun ne mangiava il cuore e ne beveva il sangue. Sia i compagni sia i nemici fuggivano alla vista di quella bestia senza raziocinio che uccideva tutto ciò che incontrava. Pochi vollero affrontarlo; questi morirono.
L’esercito del regno di Frikraftes fu sconfitto e iniziò a fuggire. Il soldato impazzito li inseguì e né gli arcieri né gli alabardieri riuscirono a fermarlo. Tutti quelli che rimanevano indietro venivano massacrati da quell’unico soldato, finché, senza contare gli uomini a cavallo che furono più veloci, non restò un solo uomo intero.
Solo allora Gheldjun si fermò e iniziò a guardare ciò che aveva compiuto. Il suo sguardo cadde su un fiore che era tra i cadaveri ed era sporco di sangue. S’inginocchiò davanti ad esso e si rese conto di che pazzia fosse stata quella battaglia e di quante vite aveva inutilmente spezzato.
Lo raccolse e solo allora si rese conto di essere morto.
Non si fermò davanti ai sibili delle lance.
Non si fermò davanti ai dardi infuocati.
Non si fermò davanti alle spade insanguinate.
Ma finita la battaglia si fermò davanti ad un fiore e si accorse di essere morto.
Lui era un Berserk.