sabato 14 novembre 2009

Epifanie

Quanto tempo passa, quanto tempo è passato, alle volte il passato ritorna prepotente. Spalanca di forza l'ingresso del presente, sconvolge ogni cosa, e ti ritrovi a confondere ogni istante vissuto: sta accadendo o era accaduto, forse dovrà accadere. Confusione è tutto ciò che rimane da sistemare, il resto chissà dov'è.

Mi ricordo, ci ripenso e sorrido, la gelateria con il gelato più buono di Aosta che ora non c'è più, o meglio ha cambiato gestione. Ormai sono anni che ha chiuso, c'ero andato solo una volta lì a prendere il gelato . Chissà perché poi, non era nulla di importante alla fine, ma se ci ripenso mi spiace.

È strano, ma ora ho capito una cosa che mi avevano detto, già ho capito, succede che alcuni luoghi ti ricordino persone o eventi accaduti.


martedì 10 novembre 2009

Test III "Dialogo"

“Guarda che se ti turba, possiamo anche cambiare discorso. Non è di fondamentale importanza parlarne, beh io un po' ci tenevo perché è da mesi che continuo a pensarci, mi sembra che sia arrivato il momento di discuterne, non ti sembra?”

“Si hai ragione, continua pure.”

“Beh, comunque, se esagero o ti pare che stia drammatizzando troppo, fermami pure, non farti problemi a dirmi quello pensi, sai che, alle volte, ingigantisco le cose, ma sei sicura di volerne parlare, non ti vedo convinta.”

“Si, si anche io è da un po' che ci penso, forse è il momento giusto.”

“Non ne sono più tanto convinto, forse sarebbe meglio parlarne in un altro momento. Mi sembri un po' strana, ma non stai lavorando un po' troppo in questi tempi? Ti vedo parecchio stanca, forse dovremmo riprendere il discorso un altro giorno, quando sarai più tranquilla.”

“No, no, è tutto a posto. Sto lavorando parecchio, ma non sono stanca. Dai prosegui mi stava iniziando a interessare.”

“Ma sei sicura? Non mi sembrava che ti stesse prendendo più di tanto, anzi mi sa che ti stavo annoiando. Effettivamente se non ti interessa quello che penso ti basta dirlo, non mi faccio problemi, anzi è meglio non parlarne più, così risolviamo qui.”

“Eh no, hai iniziato, adesso finisci.”

“Visto diventi acida, con te non si può mai fare un discorso.”


venerdì 6 novembre 2009

Test II "Bellezza"

Presi in mano una pietra, era perfetta nella sua rotondità, liscia al tatto e lucida alla vista. Me la rigirai tra le mani, era compatta e leggera allo stesso tempo. La rimirai tra le dita e controluce, non ne trovavo imperfezioni. Non avevo mai visto una pietra così bella, cercai di ricordare le altre che avessi trovato, se fossero state come quella, se avessero potuto minimamente essere paragonabili con lei, ma niente, nonostante mi spingessi con la memoria fino alla mia infanzia, niente, nessuna poteva essere minimamente avvicinata da quelle magnifiche fattezze.

Strinsi le nocche intorno a quel piccolo tesoro finché non sbiancarono. Cosa ne avrei potuto fare, non si poteva sprecare tanta bellezza, ora, non avrebbe potuto ritornare nel mucchio insieme alle altre, nell'anonimato della riva, dove, forse, nessun altro l'avrebbe più notata e lodata, come avrebbe meritato di essere.

La guardavo, l'accarezzavo, la rigiravo e ne saggiavo la fragranza, quell'odore di umido e salmastre che aleggia vicino all'acqua. Continuavo a domandarmi dove avrei potuto metterla per far si che il mondo l'ammirasse, come avrei potuto darle la scena che avrebbe meritato, come avrei potuto darle l'ammirazione che meritava.

Guardai il fiume e mi misi in posizione, con un rapido movimento del braccio la lanciai. Otto salti fece sulla superficie dall'acqua, non male, proprio una bella pietra.


martedì 3 novembre 2009

Berserk

Gheldjun si fermò a guardare la spianata. Il nemico si era schierato più in basso rispetto al suo esercito, sembrava che la leggera pendenza avrebbe favorito i Wolsenfohn, il reggimento a cui apparteneva. Si compiacque con se stesso sia per il vantaggio che avevano sugli avversari, sia per la deduzione strategica che aveva appena constatato: in effetti, il suo comandante li aveva fatti fermare mezza giornata di cammino in anticipo per sfruttare questa posizione. Gheldjun stimava il Tenente Knocharthen per queste finezze tecniche e un giorno quando avesse fatto carriera avrebbe voluto assomigliare a quell’uomo.

L’ esercito avversario mostrava, a loro vantaggio, una maggiore versatilità sul campo, infatti, gli stendardi dei reggimenti erano molteplici e denotavano una quantità di squadre specializzate negli attacchi da lunghe distanze, quali arcieri e frombolieri, e in quelli veloci, quali cavalieri e lancieri a cavallo. Anche le truppe di fanti erano divise secondo le armi utilizzate: dagli alabardieri agli spadaccini e dai lancieri ai soldati armati di ascia. Tra i ranghi figuravano anche molti mercenari del sud di Botterden, caratterizzati dalle loro lame fini, ma capaci di decapitare con un colpo, e dalle loro armature dai colori vivaci, quasi un invito a ucciderli.

Per contro il loro esercito sembrava un’accozzaglia di disperati. La maggior parte erano fanti con le armi più disparate, quasi tutte erano ereditate dai padri o dai nonni (nel caso i primi non avessero mai fatto ritorno da guerre passate). Gli arcieri e i cavalieri erano assai pochi: i primi perché ai loro occhi, compresi quelli di Gheldjun, era poco onorevole combattere con un arco, i secondi perché rischiare di perdere un cavallo in battaglia era una disgrazia che pochi potevano permettersi.

Il giovane guerriero smise di osservare il campo di battaglia, nonostante le sue ambizioni c’era ancora chi si occupava al posto suo della strategia da effettuare, e si concentrò sui suoi compagni. A qualcuno tremavano le gambe, mentre altri sudavano nonostante il fresco mattutino, Gheldjun pensò che doveva essere il loro primo combattimento visto che i loro visi gli erano sconosciuti. Invece a lui ed ad altri uomini brillavano gli occhi: era la sete di sangue. Lui ormai era un veterano, anche se quella era la prima battaglia di così vaste proporzioni cui avesse mai partecipato, ma questo non lo preoccupò minimamente: dopotutto mille o diecimila uomini era la stessa cosa, non doveva ucciderli tutti lui.

Si ricordò la prima operazione cui aveva preso parte. Aveva appena completato l’anno di addestramento riservato alle reclute ed era stato distaccato in una divisione di pronto intervento, i razziatori. Questa parte dell’esercito si occupava di distruggere gli avamposti del regno di Frikraftes, loro eterno rivale, prima che si militarizzassero, quindi erano villaggi di contadini e allevatori in cerca di terre. Il loro compito era di uccidere i pochi soldati e gli uomini e di riportare in schiavitù donne e bambini. A Gheldjun quel compito parve un massacro insensato e senza gloria, se avesse voluto raggiungere il regno dei guerrieri morti, Dorfenheld, non avrebbe potuto uccidendo contadini, inoltre gli ricordava il suo villaggio, così si fece trasferire nei ranghi dei Wolsenfhon.

Questo pensiero lo riportò al giorno della sua partenza da casa, per la coscrizione obbligatoria, cinque anni fa. Era il giorno del suo sedicesimo compleanno e un araldo del Re gli aveva consegnato la lettera in cui si dava notizia che aveva dieci giorni per recarsi a Westaidt, la capitale del suo regno, per portare servizio alla sua patria. Doveva partire subito perché il viaggio dal nord era lungo e i dieci giorni gli servivano tutti. Preparò in fretta i suoi bagagli. Suo padre lo chiamò in disparte e gli consegnò le sue armi che prima erano state di suo padre e prima ancora del padre di suo padre. Erano un’ascia e uno scudo, non avevano molti ornamenti, erano incise solo le rune della forza e del coraggio, ma sembravano appena forgiate tanta era la cura con cui erano state conservate. Arrivò il momento di partire e la madre, il fratello e le due sorelle lo salutarono piangendo, il padre, con una strana luce negli occhi, gli disse: “Sarò fiero di te. Ci rivedremo nel Dorfenheld”. Quel giorno non capì suo padre, ma adesso lo comprendeva benissimo.

“Ti vedo pensieroso quest’oggi. Sei preoccupato per la battaglia o per aver messo incinta quella ragazza? Com’è che si chiama? Non me lo ricordo mai”. Le parole di Stassechen, suo amico e fratello di ascia, lo riportarono alla realtà. “Si chiama Defteu e non è incinta. Stavo pensando a casa mia. Fra una settimana ho una licenza di un mese e ci torno”. “Ci torni se non muori oggi. Comunque il Dorfenheld è già aperto a uno come te”.

Le loro parole furono interrotte dall’arrivo del loro diretto superiore. Il Capitano Walachten stava ispezionando le file della sua compagnia sorridendo ai nuovi arrivati e facendo cenni col capo ai veterani. In quel momento stava pensando che non avrebbe dovuto ricordare a nessuno di cercare di ritornare indietro vivo, vista la giovane età di ogni singolo soldato. Si fermò solo di fronte ai due amici e guardandoli malamente li minacciò: “Se anche questa volta dovrò formare delle squadre di ricerca, perché due idioti si sono messi a inseguire da soli il nemico in rotta, non esiterò a punirli!” “Non si preoccupi Capitano, Gheldjun tra una settimana ha una licenza, quindi non ci perderemo”. Appena ebbe finito di parlare, Stassechen fece l’occhiolino al compagno. Il Capitano si diede un colpo in fronte e allontanandosi disse: “State attenti, mi piacerebbe rivedervi vivi”.

L’attenzione di Gheldjun e di altri soldati fu attirata sulla spianata: il Comandante e un araldo dei nemici stavano attraversando il campo con una bandiera bianca, volevano parlamentare. Subito il Tenente Knocharthen e un suo araldo andarono loro incontro. S’incontrarono in fondo alla discesa e iniziarono a parlare animatamente. Il giovane soldato non riuscì a sentire quel che dicevano, ma capì che l’esito dell’accordo fu negativo, quando l’araldo fiancheggiò l’esercito dicendo di serrare i ranghi e tenersi pronti.

Passarono pochi minuti, ai soldati sembrò un’eternità, e il segnale fu dato. La carica iniziò. I fanti dei due schieramenti iniziarono a corrersi incontro.

Quando furono a tiro, Gheldjun e i suoi compagni furono bersagliati da un nugolo di frecce. Molti vennero uccisi, ma ciò non rallentò la loro folle corsa.

L’impatto fu tremendo. L’impavido soldato brandiva l’ascia con furia sovrumana, ogni suo colpo uccideva o menomava un avversario, ogni zona del suo corpo era imbrattata di sangue, ne sentiva il sapore dolciastro e l’odore acre attraverso le narici e le labbra, i suoi capelli erano diventati rossi.

Con un occhio teneva sotto controllo l’amico Stassechen nel caso fosse sopraffatto dai nemici, ma vide che anche lui se la stava cavando alla grande.

La fanteria nemica stava soccombendo, infatti, nonostante la varietà di armi e la presenza dei mercenari, era inferiore di numero e di forza fisica e di questo Gheldjun fu grato agli Dei.

Si accorsero tutti troppo tardi che la cavalleria stava cercando di chiuderli alle spalle. Quest’ultima iniziò a falciare i soldati come se stesse mietendo il grano. Il Tenente Knocharthen mandò avanti gli arcieri a danno dei cavalieri nemici.

La battaglia subì uno stallo, le forze in campo si eguagliavano e sarebbe stato un massacro per entrambe le parti.

Gheldjun cercò l’amico e lo vide, mentre veniva infilzato da un lanciere. Corse per aiutarlo, ma arrivò tardi, ormai Stassechen era caduto per terra. S’inginocchiò, prese l’amico per le spalle e lo alzò. Il moribondo incominciò a vomitare sangue, ma riuscì ancora a dire: “Ritorna a casa almeno tu. Hai una donna, falla felice”. Stassechen vide che gli occhi del fratello d’ascia non erano più umani, erano iniettati di sangue, e che il sorriso era stato sostituito da un ringhio, dai lati della bocca fuoriusciva della bava. Gheldjun, ormai impazzito, abbandonò l’amico gettandosi nella mischia, le ultime parole che udì dall’amico furono: “TORNA INDIETRO, SCAPPA!!!” La mente del giovane soldato era vuota, l’unico pensiero, che gli arrivava da una recondita parte del suo cervello, era una sete incontrollabile di sangue.

Ogni avversario ucciso veniva maciullato a colpi di ascia. Ad ogni morto Gheldjun ne mangiava il cuore e ne beveva il sangue. Sia i compagni sia i nemici fuggivano alla vista di quella bestia senza raziocinio che uccideva tutto ciò che incontrava. Pochi vollero affrontarlo; questi morirono.

L’esercito del regno di Frikraftes fu sconfitto e iniziò a fuggire. Il soldato impazzito li inseguì e né gli arcieri né gli alabardieri riuscirono a fermarlo. Tutti quelli che rimanevano indietro venivano massacrati da quell’unico soldato, finché, senza contare gli uomini a cavallo che furono più veloci, non restò un solo uomo intero.

Solo allora Gheldjun si fermò e iniziò a guardare ciò che aveva compiuto. Il suo sguardo cadde su un fiore che era tra i cadaveri ed era sporco di sangue. S’inginocchiò davanti ad esso e si rese conto di che pazzia fosse stata quella battaglia e di quante vite aveva inutilmente spezzato.

Lo raccolse e solo allora si rese conto di essere morto.

Non si fermò davanti ai sibili delle lance.

Non si fermò davanti ai dardi infuocati.

Non si fermò davanti alle spade insanguinate.

Ma finita la battaglia si fermò davanti ad un fiore e si accorse di essere morto.

Lui era un Berserk.

Test I "Al Bar"

Continuava ad aspettare che arrivasse, come al solito era in ritardo. Si stava iniziando ad annoiare, i suoi pensieri era centrati sul fatto che fosse sempre così e, molto probabilmente, sarebbe stato sempre così. Il suo sguardo cadde in quel momento su un nuovo avventore diretto verso il bancone.

Salutò la barista e ordinò un caffè, questo era, decisamente, il bar dove preferiva berlo. Lo servivano come piaceva a lui: bollente, nero e cremoso. Doveva sempre allungare la strada del ritorno verso casa per andare in quel locale, ma per un caffè così ne valeva la pena. Il cliente che aveva di fianco stava consumando anche lui un caffè, ma lo stava oltraggiando unendoci latte e zucchero.

Mentre stava per prendere in mano la tazzina, si accorse di essere guardato di traverso, l'uomo vicino a lui lo stava letteralmente uccidendo con lo sguardo. Si immobilizzò e inizio a domandarsi che cosa mai volesse questo tipo strano, chissà cosa mai gli avesse fatto, decise così di ignorarlo e di guardare altrove, puntò allora gli occhi sulla barista, una vista sicuramente migliore del bestione a fianco.

Quella era una di quelle serate dove non si riusciva a stare tranquilli un secondo, continuavano ad arrivare clienti, quindi non sarebbe riuscita ad uscire per fumare una sigaretta. Era il problema di questo lavoro, in alcuni momenti non c'era nessuno, in altri non si riusciva a stare fermi un secondo. Salutò un ragazzo che se ne stava andando e si concentrò nuovamente sulla birra media che stava spillando.

Aprì la porta, prese una sigaretta, la infilò in bocca e l'accese. Si diresse verso la macchina mentre stava pensando che domani si sarebbe dovuto alzare presto per andare a lavorare.


Avvertenze D'Uso

Inauguriamo con il prossimo post una nuova corrente di pensiero (molto plateale N.d.r.) che necessita di un piccolo manuale d'uso, infatti, inizierò a fare esperimenti su un nuovo stile, ovvero l'”astrattismo” o, almeno, così ho pensato di chiamarlo io, magari esiste già, ma io lo ignoro.

L'idea nasce dalla lettura di Dino Buzzati (senza offesa N.d.r.), sia da “Sessanta Racconti” sia da “Il Deserto Dei Tartari”.

I racconti che seguiranno con l'etichetta “nonsense”, come dice la parola stessa, non hanno senso, non hanno una logica e, soprattutto, non hanno significati nascosti (a chiunque ne trovasse consiglio qualche seduta da un buon psicologo N.d.r.), l'autore, nel scriverli, cercherà di non esprimere assolutamente nulla. Il lettore si troverà, in questo modo, ad affrontare una lettura piacevole (almeno si spera N.d.r.), ma che sarà senza una conclusione e soprattutto non gli dovrebbe suscitare nessuna emozione, tranne il dubbio di avere sprecato del tempo.

Se casomai qualcuno riuscisse a estrapolare qualsiasi cosa sopra citata, gli porgo le mie scuse, sto cercando di migliorare.

Buona lettura.